Ichi the Killer (2001) La solitudine dei numeri primi ovvero l'amore uccide, firmato Takashi Miike


- Quando vuoi fare del male a qualcuno non devi mai provare compassione per lui, anzi devi sentire la gioia del dolore che gli fai provare. Questa è la forma più alta di compassione -

Non esiste alcun riparo dalla sua ultraviolenza, Takashi Miike è come un diretto in piena faccia che contorce tutto quello che può colpire nel volto (e nella mente) dello spettatore. “Ichi the killer”, questo il nome della pellicola che tratto oggi, è solo l'ennesima conferma dell’immane talento di questo artista della settima arte orientale, d'incredibile e quasi interminabile produzione cinematografica. Capace in vent’anni di carriera di prendere ogni genere cinematografico e trasformarlo in qualcosa di più e di maledettamente diverso. “Audition” per esempio mischiava la tematica horror con quella d’amore, “Gozu” prendeva i classici film sulla yakuza avviluppandolo in un misto di horror onirico dalla caustica ironia, senza citare pure “Izo” altro esempio di pura inventiva che mischiava salti temporali di un guerriero per descrivere il male umano radicato nel Giappone attraverso lirica e intermezzi musicali. Ahimè, sarebbe una lista troppo lunga da descrivete del suo modo di fare cinema in tre tempi distinti, ma è pur sempre un incipit dovuto per tenere a mente chi ci troviamo davanti agli occhi.

Cosa si può dire (oltre che è uno di que a un neofita del cineasta a proposito di Ichi the killer? Già da solo parlerebbe l’iconico inizio truculento (prima goccia del bagno di sangue), in cui il titolo del film viene messo in bella mostra con tanto di sperma vero. La base è pur sempre quella degli yakuza movie, in questo caso presa dal soggetto del manga omonimo di Hideo Yamamoto, ma l’evoluzione dei contenuti è brutale nella sua complessità quanto dannatamente intima nell’esposizione della solitudine dei suoi protagonisti, sarebbe come definirlo il film di San Valentino dei cuori spezzati più violento di sempre (la scena dello stupro su tutte, che richiama a sua volta quella di Sonatine di Kitano). Quasi come un film per pochi spettatori selezionati, capaci d’intendere quello che accade attraverso una sequela efferata di violenza partendo dalle torture fino alla ricerca del dolore riversata in modo esterno e interno dei personaggi. Non esiste alcun film che descriva la violenza (sia fisica che emotiva) alienante dell'inizio 2000 meglio di questo lavoro di Miike.


Il colore del sangue nei film di Miike ha talmente tante sfumature, che la scala cromatica in cui esso si dipana non basterebbe da identificare neanche in quella dei classici cliché: la vittima che diventa carnefice, i buoni contro i cattivi e via dicendo. La violenza che viene messa in atto riduce ad uno straniamento e alienazione dello spettatore davvero ad alti livelli, ma non è fine a sé stessa o meglio essa agisce in modo da far capire il senso di essa sotto la pelle (e nella mente) di chi guarda visto che affiora la completa solitudine umana nella ricerca dell’amore. L’universo di Miike nella maggior parte dei casi è fatto di vittime dell’esistenza, nulla più e nulla di meno, in questa variante è popolato da vittime dell’amore, nel dettaglio l’impossibilità di trovarlo.


Un amore che non verrà mai trovato dai protagonisti, dal masochista gangster Kakihara (il ruolo della carriera di Tadanobu Asano, vedere per credere, già solo nella presenza scenica) e dal serial killer disturbato Ichi, perso nel proprio modo di vivere malsanamente egoista in cui la soddisfazione della propria condizione d’amore si sviluppa attraverso l’appagamento nell’abuso degli altri esseri umani. Questa deviata ricerca portare allo scontro finale tra Kakihara e Ichi, il cui culmine sarà la completa estasi (come l’orgasmo) o almeno così si porterebbe a pensare se non fosse per il completo fallimento che essa raggiunge nell’epilogo, come la ricerca menzionata prima dell’amore da parte di tutti i personaggi. In questo corollario di personaggi privi di una ben definita struttura sociale e culturale, spicca la genuina presenza scenica di essi nella loro spontaneità umana, come se Miike li avesse messi nudi e senza nessuna barriera o etichetta ideale. Il confine tra amore, passione, violenza fisica non è sempre distinguibile in questa carneficina di violenza umana, ma suggerisce in modo lampante, o almeno così Miike intende, che l’amore fa male, dannatamente male, anzi esso uccide.



Commenti

  1. eh, che dire? questo film ho faticato a interpretarlo, ma è chiaro che con l'insistenza sull'eccesso il regista ci sta parlando...

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    1. E che insistenza 😄 Miike non ci va mai delicato su certi aspetti.

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  2. Non mi spaventa niente del cinema, a parte Miike...

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    1. Con la testa che si ritrova, difficilmente si rimane impassibili verso sue certe scelte visive.

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