Mystic River (2003) Un thriller in stato di grazia, firmato Clint Eastwood



- A volte penso che ci siamo saliti tutti e tre insieme in quella macchina.-

Avendo già parlato di ben tre Clint del cuore, era impossibile che per i suoi vent’anni mi lasciassi sfuggire questo film, che ebbi modo di vedere durante il periodo in cui spasimavo per le pellicole con Kevin Bacon (da me ritenuto sempre un grande attore americano). Mi approcciai con la totale ignoranza di cosa fosse o di cosa esso contenesse, una scatola chiusa insomma, mi trovai davanti a qualcosa che non mi sarei mai aspettato, la magia del cinema insomma che ogni appassionato della settima arte cerca senza freno. Probabilmente se mi dovessero chiedero il nome di una pellicola da vedere, almeno una volta nella vita (d’inizio anni 2000) io consiglierei questo portentoso Eastwood d’autore. Già solo sviscerando il team creativo, due pensieri te li fai, dove si può trovare lo sceneggiatore Brian Helgeland (inutile citare le sue sceneggiature di film diventati tutti più o meno cult nel tempo), ma anche i fidi collaboratori di Eastwood rispettivamente il direttore della fotografia Tom Stern e del montatore Joe Cox. Per non parlare poi del cast in stato di grazia che da corpus ai personaggi e alla storia.


"Fiume mistico" recita il titolo, che è tale già nelle inquadrature che fanno da incipit ed epilogo di questa storia cinematografica. Un cinema che riflette, come luce sull’acqua che scorre, tre aspetti cardine della settima arte di stampo realista: puro, vero (i fatti prendono spunto da una situazione accaduta realmente allo scrittore del libro), essenziale (girato in poco meno di un mese). Distante anni luce dagli invadenti (oggi più che mai) effetti speciali. Il regista Clint dopo aver testato il genere thriller con “Debito di sangue”, entra con “Mystic River” nel periodo della piena maturità registica, scegliendo un cast d’altissimo livello (in cui troviamo pure Eli “Tuco” Wallach e Laurence Fishburne), su tutti Sean Penn che insieme a Tim Robbins porterà a casa un premio Oscar, da citare anche la bravura di Bacon (qui sostituito di Keaton come scelta) messo in luce però dalla prestazione di quei "mostri" citati prima, e adatta un romanzo di Dennis Lehane, lo stesso autore scelto da Scorsese per il suo “Shutter Island”, sfornando un thriller scomodo (di stampo Neo-noir), mai compiaciuto e per nulla convenzionale alla stilistica di allora, anche se fruisce dello stile asciutto tipico del regista che lascia ben poco spazio nei virtuosismi visivi. Un thriller che racconta di fatali coincidenze, segreti e dell’infame regola del sospetto applicata senza pietà in un chiliocosmo fatto di dolore provato, abusi subiti e orrore celato, una tragedia che si dipana senza pietà alcuna per lo spettatore, a cui lentamente verrà svelata una verità che va ben oltre la ricerca di un colpevole per un abominevole atto di violenza, ma senza l’ausilio di colpi di scena o l’utilizzo di meccanismi e clichè tipici del genere, solo un percorso verso una lucida consapevolezza, struggente e senza scorciatoie moralistiche.


“Mystic River” è il fiume in cui vengono puniti i peccati e lavate le colpe (come il personaggio di penn afferma nella scena madre), alla violenza incomprensibile segue la giustizia privata, silenziosamente accettata da chi ne conosce le dinamiche. Ogni personaggio applica, al di là di qualsiasi etica, una propria coscienza morale che si traduce in fatale risposta agli eventi. Sebbene siano un crimine infame e un terribile omicidio ad aprire il film, l’unica indagine che la regia ha a cuore è quella che riguarda l’anima umana. I tre protagonisti si ritrovano in una situazione tragica, con un peso da sostenere. Ognuno sembra farlo in maniera diversa, in realtà tutti e tre parallelamente elaborano il dolore con i soli strumenti che conoscono: omertà e ferocia. Ad azione violenta corrisponde una reazione altrettanto brutale. In “Mystic River” l’attuazione di una personale giustizia, quale risarcimento nei confronti di un destino crudele, è possibile. Ma non scordiamoci le donne (interpretate dalle altrettanto brave: Marcia Gay Harden e Laura Linney) , il cui ruolo è solo apparentemente marginale, accompagnano i loro mariti ripetendone le dinamiche mentali e avvalorandone gli errori. La caduta dei valori della società americana che Eastwood rappresenta non lascia dunque nessuno indenne, la parata finale non è affatto rassicurante; il “mostro” (da scoprire il monologo di Tim Robbins con in sottofondo, alla tv, “Vampires” di John Carpenter) è stato sacrificato, ma nessuno troverà ugualmente pace. Il tutto è valorizzato anche dalla regia attentissima e introspettiva, che con chiaroscuri, flashback e colori riesce a creare un clima di emotività schiacciante ed affascinante.

Commenti

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    1. Uno dei più importanti su suolo americano degli ultimi vent'anni.

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  2. A mio parere è il film più duro di Eastwood e nel quale il vecchio Clint, 1930, riesce ad inserire tutto il "Cinema" da lui assorbito fin da ragazzo. Pensa a quali noir, registi, attori, sceneggiatori ha incontrato negli anni 40 e 50. Lui e pochi altri possono elaborare tutto quel sapere e trasporre in chiave moderna "Tragedie" di altri tempi.

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    1. Di sicuro gli elementi del film hanno una portata "semplice" per il genere a cui appartengono. Nessuno toglie che la forma con la quale è stato messo tutto in scena è di un'intesità senza eguali.

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  3. Film magnifico, attori straordinari. Uno dei punti più alti del cinema di Eastwood

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    1. Come ho detto nell'introduzione, a livello artistico, i suoi apici come regista sono da ricercarsi in questo lavoro e "Unforgiven". Anche se nella sua filmografia sono presenti anche molte altre pellicole che hanno la loro da dire non meno di quelli più citati o rinomati.

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