Direktøren for det hele (2006) Il Grande Capo, una commedia sperimentale di Lars von Trier



Il talento di Lars von Trier non è immune neanche nell'approccio alla commedia da ufficio, ancora più ironico il fatto che dopo questo film è partita "la trilogia della depressione". L'idea di un attore messo nella parte del capo, dal vero capo (nascosto) di un'azienda, come specchietto per le allodole per la vendita dell'azienda stessa e che infine sia questo stesso attore nell'impugnare l'ultimo fatale gesto è geniale. Uno script furbo e metatestuale, perché viene sviscerato attraverso tutte le variabili del caso: partendo dai colleghi fino agli elementi esterni. Non sfigura di certo l'idea di Trier, crea anche nel suo personalissimo modo attimi di tensione che si mischiano a quelli di totale ilarità e anche reale dramma. Un vero toccasana di sperimentazione tra realtà, cinema (immancabile la scena in cui si sente in fuori campo "Lo Specchio" di Andrej Tarkovskij) e infine teatro (il piùvolte citato drammaturgo Gambini, personaggio fittizio).



Anche l'approccio tecnico sembra precedere di molti anni discussioni molto attuali riguardo l'intelligenza artificiale, perché Trier ha girato tutto attraverso l'automavision, una tecnica di ripresa cinematografica che utilizza una camera fissa senza nessun operatore dietro. La camera è comandata da un computer che decide, in maniera del tutto casuale e senza apparenti linee guida, che cosa riprendere, se fare uno zoom o una panoramica, un primo piano o un piano americano. Il risultato è molto curioso, forse l'automavision applicata nel film da Trier sottolinea il fatto di non aver potere nelle pratiche di potere dell'ufficio (e forse in una più grande visione delle cose nelle fasi di produzione di un film), le immagini talvolta si scambiano tra loro e i piani ripresa tagliano fuori personaggi in determinate scene.




Dal montaggio discontinuo e dal lavoro di ripresa senza senso, alle assurde motivazioni dei personaggi e all'ambientazione come una commedia sul posto di lavoro, questo film non assomiglia a nulla nella provocatoria filmografia (escluso forse il tema dell'identità) di von Trier e probabilmente ne accentua la sua singolarità. Divertente e terrificante allo stesso, in cui l'incipit stesso ricorda Godard in "Le Mepris", in cui lo stesso regista decostruisce in qualità di narratore onniscente la propria opera. Quando von Trier si dedica ad un genere, si impegna a farlo fino alla fine alla propria personale maniera, ottima la prova del cast: Jens Albinus, Peter Gantzler, Friðrik Þór Friðriksson, Iben Hjejle sono tutti tasselli che s'incastrano nella sperimentazione del film.

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