Titane (2021) New Wave Francese mon amour, coronamento dei vent'anni di un genere


Doveva accadere prima o poi che qualcuno premiasse un movimento artistico europeo, come lo è la New wave francese del genere horror, nella platea patinatissima di Cannes. Non mi sono meravigliato vedendo la pellicola che questo sia stato il coronamento di vent'anni di produzione francese: Xavier Gens, Pascal Laugie, Alexandre Aja, Gaspar Noè e il duo Alexandre Bustillo & Julien Maury sono tutti artefici cdi questa grande ondata che ha rinfrescato il genere horror nel vecchio continente, dopo anni di ristagnazione mainstream americana. In questo le registe Julia Ducournau e Coralie Fargeat sono figlie di questa corrente cinematografica attuale.



A conti fatti questo film è atipico, non etichettabile per genere, grottesco, cupissimo e denso di humour nero in definitiva un simposio di tante cose. Questi aggettivi che ho elencato risaltano nella mente dello spettatore, la Ducournau conosce bene il cinema di genere, impossibile non soffermarsi un attimo su "Crash", "Tetsuo" e anche "Christine", solo che la regista francese è talmente particolare che il suo stile non è conforme alla diretta citazione d'intenti cinematografici menzionati, è frutto di sicuro delle due decadi della New Wave francese del genere horror (coronata a Cannes con questo film come già detto). Verrebbe da dire che siamo dalle parti del pazzo Miike, ma anche in questo caso il soggetto scritto da lei sfugge alla comparazione più approfondita. Rispetto al precente "Raw" manca un filo conduttore che lega all'idea di qualcosa di riconoscibile, questo lo trovo interessante.


Immancabile il pezzo italiano vintage nella colonna sonora, questa volta tocca a Caterina Caselli con la sua "Nessuno mi può giudicare" che descrive quasi alla maniera Morettiana (ironicamente giudice e detrattore del film in questione a Cannes) lo status del personaggio, ma il corpus delle composizioni di Jim Williams non si lascia dietro motivetti e picchia sempre duro nella narrazione. Ruben Impens immette con la sua fotografia l'ambientazione allucinata, quasi sporca e talvolta splendente dei riflessi metallici, che permea il girato assieme ovviamente alle scenografie di Laurie Colson e Lise Péault e ai costumi di Anne-Sophie Gledhill. Altro capitolo è il cast, partendo dalla fatale Agathe Rousselle che qui riveste totalmente il ruolo della sua protagonista malata, bella quanto psicopatica e priva d'amore, ma il vero ponte che collega tutta l'empatia dello spettatore rimane la prestazione di Vincent Lindon qui nelle vesti di un uomo ai limiti della sofferenza della propria umana esistenza. Piccola menzione per l'attrice feticcia della Ducournau, ovvero Garance Marillier qui sempre a suo agio nel ruolo che deve ricoprire, anche se modesto, con un personaggio che porta immancabilmente il nome Justine come negli altri precedenti lavori.




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