Seconds (1966) I Rinati di John Frankenheimer, quando una seconda vita non basta



Nel mio viaggio alla scoperta del cinema di John Frankenheimer, questa volta, ho scelto di approcciarmi alla sua parte di filmografia degli inizi cadendo direttamente al suo ottavo film uscito nel 1966, da noi in Italia conosciuto con il fuorviante titolo di "Operazione Diabolica". Frankenheimer aveva completato diversi film di successo prima del suo coinvolgimento nel progetto, vale a dire "Birdman of Alcatraz" (1962), "The Manchurian Candidate" (1962) e "Seven Days in May (1964). Questi ultimi due film insieme a "Seconds" sono talvolta indicati come la "trilogia della paranoia" di Frankenheimer. 



Sinceramente non sentivo una tale venatura dark in un prodotto sci-fi se non in "Brazil" di Terry Gilliam, anche se in quello è proprio il finale che spiazza, in questo lavoro di Frankenheimer la risolutezza con cui piano piano l'angoscia prende piede è resa sin dai primi minuti con maestria. Il connubio del regista con il direttore della fotografia James Wong Howe (cinque decadi d'esperienza e si vedono) è sublime, il primo innesta applicazioni di regia tipicamente europee (francese su tutti) e invece il secondo adopera la conoscenza svolta nel cinema muto per ampliare la potenza visiva del racconto, che nonostante abbia dalla sua molti dialoghi importanti non perde spazio e unifica l'aspetto prettamente estetico della distorsione/deformazione del girato a proprio vantaggio. In questo la sceneggiatura di Lewis John Carlino adatta ottimamente il libro omonimo scritto da David Ely.



Rock Hudson (terza scelta dopo i mancati Kirk Douglas & Laurence Olivier) destruttura la propria immagine, fino ad allora considerato come divo Hollywoodiano vecchia maniera in modo esemplare, ma anche il resto del cast non è da meno come la bellissima nella sua ambiguità relativa al personaggio Salome Jens (la sua scena nella classica festa di folkore è tutta da vedere), per non parlare anche di John Randolph, Murray Hamilton e Will Geer. La spirale di destrutturazione della personalità, rinascita spirituale e decadimento emotivo sono svolte da manuale e il contesto in cui tutto succede ha un fascino d'altri tempi, merito pure della colonna sonora suggestiva di Jerry Goldsmith che ben si sposa con le scenografie (al limite del surreale) di Ted Haworth e John P. Austin. Un film che è un'oasi felice tra la Golden Age Hollywodiana che chiude i battenti (Noir) e la rivoluzionaria New Hollywood sorta dopo, un incubo esistenziale che sfocia nella corrosiva satira sociale ai confini dello sci-fi distopico.




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