Il conformista (1970) La pura tecnica di Bernardo Bertolucci, un neo-noir barocco decadentista sulla conformazione al fascismo


- L'ho sempre detto io: fatemi lavorare nella merda ma non con un vigliacco. Per me vigliacchi, invertiti ed ebrei sono tutti una razza. Fosse per me li metterei al muro tutti insieme. Anzi, bisognerebbe eliminarli subito, appena nati. -


“Il conformista" di Bernardo Bertolucci, adattato dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia, è il lampante esempio di come la pura tecnica cinematografica di altissimo livello si presta alle capacità di trasposizione di un romanzo nella settima arte. Il protagonista, Marcello Clerici, cerca infatti di riscattare la sua anormalità per mezzo dell'appartenenza al partito fascista e dell'adesione a un ideale condiviso da una maggioranza di persone in grado di non far mai venire meno la certezza di stare dalla parte giusta.Marcello quindi accetta così di uccidere un oppositore del regime come riscatto morale del delitto commesso quand'era fanciullo, e al tempo stesso come prova di ammissione alla normalità della società in cui vive. Un’assoluzione dei propri peccati insomma, attraverso il sangue, che viene anche citata dal protagonista stesso in una scena chiave del film ma non da Dio, ma dalla società. Vien da sé che nel libro di Moravia la normalità è l’assenza di peccato che è impossibile a conti fatti, dove incombe ineluttabilmente il peso del destino, della fatalità, che impedisce all'uomo di compiere delle scelte autonome e rende inadeguato il suo ruolo nel mondo.


Bertolucci comunque, essendo un signor regista sceglie di percorrere un’altra strada (cambiando anche il finale) attraverso la messa in mostra dei luoghi comuni, della pazzie e del simbolismo cinematografico. L'ambiguità tematica de "Il conformista" trova una perfetta corrispondenza nella sua ambiguità stilistica. Partendo dalla struttura narrativa, che nel film è particolarmente complessa, in quanto si articola in una lunga serie di flashback e scarti temporali. Un approccio narrativo non convenzionale, del resto, l'utilizzo dei flashback è un procedimento molto caro al regista, come dimostrano gli esempi di "Novecento" e de "L'ultimo imperatore". La scenografia di Fernando Scarfiotti si sublima alla fotografia di Vittorio Storaro nella messa in scena del film. All'interno di una composizione classicamente perfetta (che anzi può essere assunta come esempio di un decadentismo languido e raffinato, non meno dannunziano de "La pioggia nel pineto" recitata in treno da Marcello), Bertolucci fa trapelare infatti un che di malsana (barocco e fatiscente come l’indole architettonica fascista) e di anormale: dalle inquadrature sghembe (quando Marcello viene involontariamente pedinato dalla automobile di Manganiello) agli spazi grandiosi perciò opprimenti dell'architettura littoria, dalle conturbanti scene saffiche tra Anna e Giulia per finire alle foglie morte riprese dalla cinepresa a terra mentre vengono sollevate dal vento, tutto concorre a richiamare un'atmosfera di morbosità, di decomposizione e di sfacelo.


Una delle cose che più mi ha colpito di Bertolucci, è che lui, per trasmettere il proprio messaggio, non ci ha girato intorno come magari, altri registi avrebbero fatto. Mettendo a nudo quanto fosse perverso e rigido il regime che ha imperversato nel nostro paese. All'epoca, bisognava appunto conformarsi ad esso, altrimenti le conseguenze potevano essere terribili, specie per chi era un "deviato" secondo il regime. Personalmente, ne riconosco gli altissimi pregi, ma anche i relativi difetti. Non sono di poco conto né gli uni né gli altri. A livello tecnico siamo su alti livelli (le riprese sono avanti anni luce allo schematismo di quelle contemporanee all’anno in cui è uscito) ciò si riversa sulla riuscita della trasmissione anche fotografica delle allegorie presenti nella pellicola, vero punto forte (basti pensare alla scena del ballo o a quella delle scarpe di colore diverso, per esempio). Abbastanza riuscita anche la specularità tra il protagonista e Anna, ma non del tutto. Bertolucci in questo forse si è un po’ perso in sé stesso e la sceneggiatura in quel frangente. Controverso il finale (il fascista di oggi è il democratico di domani), totalmente inventato rispetto al romanzo, atto a riprendere e addirittura a ricalcare lo spunto iniziale, reo, a mio avviso, di incatenare lo sviluppo intellettuale della narrazione intimistica della vicenda. Cast enorme comunque: Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Gastone Moschin, Pierre Clémenti ed Enzo Tarascio completano con la loro professionalità attoriale questo altissimo quadro tecnico, sociale, politico, barocco e dannatamente intimista.



Commenti

  1. Uno dei capolavori di Bertolucci senza ombra di dubbio :)

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    1. Una tecnica e forma di altissimo livello e almeno di vent'anni avanti rispetto al periodo.

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