Factotum (2005) I molteplici lavori di Henry Chinaski


- Se hai intenzione di provare, vai fino in fondo. Non c'è una sensazione al pari di questa. Sarai da solo con gli Dei, e il fuoco incendierà le tue notti. Cavalcherai la tua vita dritto verso una risata perfetta. È l'unica battaglia buona che ci sia. -


Chi abbia mai letto Charles Bukowski (non quelli che si fermano alle superficialissime condivisioni da social network delle sue frasi) non può che sorridere quando sullo schermo appare Matt Dillon sotto le spoglie di Henry Chinaski. Ubriacone, scrittore di talento che nessuno vuole pubblicare, sempre trasandato, sporco, barba ispida, sguardo intorpidito e occhi gonfi, animo eternamente rivolto alle donne ma quanto più possibile lontano dalla sobrietà e da una vita stabile.Ma badate, l'alter ego dello scrittore qui è una semplice ispirazione e non vuole - né potrebbe - esserne la personificazione. Factotum come dice il titolo, Henry passa con malavoglia o semplice indifferenza da un lavoro all'altro, quel che conta è pagarsi da bere la notte, avere di che scommettere e poter godere dell'inedia e dello stato di reietto senza voler essere un ribelle.


Borderline in quel di Los Angeles, Henry non cambia solo lavoro ma anche donna, fedele sempre e solo alla bottiglia e ad una certa (dolorosa) ironia che fa sorridere. Fortunatamente come nel libro in primis non ci si perde nel dramma cupo, vari momenti fanno ingranare la pellicola da un senso o dall'altro, da situazioni al limite del ridicolo fino ai snocciolamenti profondissimi ed esistenziali dello scrittore. Già autore di Eggs e Kitcken Stories, il norvegese Bent Hamer è un habitué della Croisette dove ha avuto modo di portare anche Factotum, sempre e solo nella sezione Quinziane des Realizateurs. Pur senza eccellere, sorto da un mix tra racconti propri del regista e il romanzo omonimo del celebre scrittore, siamo dinanzi ad un buon esempio di trasposizione, disperatamente sorretto da un ottimo Matt Dillon che dondola e si trascina da un bar all'altro con soluzione di continuità. E difatti è proprio grazie a Dillon (ormai svezzato al cinema europeo) e ottime comprimarie come Marisa Tomei o Lili Taylor che si scorge qualcosa che può andare al di là della banale storia di trasandatezza e compiaciuta autodistruzione.


Da citare anche la bella colonna sonora di Kristin Asbjørnsen. Al di là dei bar polverosi, della bottiglie avvolte nei sacchetti di carta, al di là dei soliti movimenti (o non movimenti) di macchina che sbirciano questa esistenza malata. Viene offerto allo spettatore un'ora e mezza per essere trascinati nei bassifondi, permettersi ogni bassezza e poi decidere che fare della propria vita. Questo adattamento di Buk da parte del norvegese Bent Hamer lo ritrae certamente come una persona molto disinteressata alla scrittura di altre persone, ma mostra in modo convincente come questo solipsismo sia una chiave
 del suo talento che della sua solitudine. Matt Dillon (ripeto) offre una performance molto interessante e studiata nei panni del suo alter ego immaginario Henry Chinawski, e certamente non esalta la miseria del suo solamente essere ubriacone. Consigliato il libro come accompagnamento alla pellicola.



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