Avatar: The Way of Water (2022) Bentornato Jim, ritornare a Pandora 13 anni dopo

 

Molto ironico, se non strano che il primo film che io metta in ballo, qui su Once, sia l'ultimo fatto cronologicamente di questo regista. Il nome è James Cameron, mi ha letteralmente cresciuto con la sua iconografia cinematografica, creatore di diverse saghe che hanno segnato la storia del cinema contemporaneo (e la mia infanzia): Aliens, Terminator e infine quella che forse è la sublimazione della sua continua ricerca che porta il nome di Avatar. Tempo fa Kubrick disse che il cinema è in continua evoluzione e che non sarà mai statico nella sua ricerca espressiva, questa ben precisa affermazione la si può senza dubbio vedere in quella che è la ricerca continua di Cameron dietro (e dentro) la telecamera.Nonostante quello che si possa dire sul suo ego, smisurato quanto l'oceano, è indubbio il talento fatto di tecnologia, passione e azzardo. Esatto azzardo, perché ci vogliono i nervi e la lungimiranza per far uscire il seguito di Avatar ben 13 anni dopo e zittendo buona parte dell'elitario (ormai questo sta diventando) pubblico appassionato di cinema e della sempre presente critica. The Way of Water è una conferma, ma anche un nuovo punto di partenza, che attraverso determinate riflessioni (che molti sicuramente riconosceranno tipiche del cineasta e del suo modo di vivere) ci porta nel tentare di andare oltre quella che è probabilmente la sola immersione visiva di un prodotto.
Cameron senza dubbio ha creato un nuovo mondo, come hanno fatto in diverse metodologie (e generi) persone come George Lucas, Tolkien e perché no, anche Jack Kirby. Creare un mondo non significa soltanto mettere su produzione e cast creativo ricercando una trasposizione reale del contenuto a livello estetico. Creare un mondo significa metterci testa, cuore e tanti sentimenti, tutto questo è possibile trovarlo in questa saga. Il trucco è far sembrare tutto il più reale possibile, semplice nel dirsi molto complicato nel farsi, ma quando si riesce il risultato non sarà mai al di sotto di un ottimo prodotto fruibile a tutti e per tutti. Questo seguito riesce nell'intento di amplificare quanto messo sul tavolo da gioco (che è il nostro intrattenimento) tanti anni fa, intensificando i temi trattati relazionandoli con quanto basta della realtà, sia per simularla e sia per migliorarla. La natura da Blockbuster, che ormai sembra diventata una parola desueta, rimane sempre il miglior mezzo espressivo (e per far soldi, ovviamente) per quei cineasti che hanno merito di non essere mestieranti e mettono insieme al loro personalissimo carattere sia la ricerca che l'evoluzione. Se tredici anni fa Cameron aveva esposto una Pandora primigenia ai nostri occhi, in questo film la sua ricerca ci mostra un'entità viva molto più articolata, molto più diversificata e dannatamente attuale, il messaggio ecologista ci arriva anche senza che ci venga messo giù per la gola come agli infanti il boccone.
Pandora è proprio un altro mondo, forse il più originale e vivo degli ultimi cinquant'anni di cinema contemporaneo, su questo ci giocherei le mie mani sul fuoco vivo, vivo come quello che Prometeo portò agli uomini nel mito ellenico. Per vedere girati così grandiosi, dalla forma perfetta e fertili di emozioni, come di contenuti, che è senza dubbio questo film, bisognerebbe risalire a tantissimi anni fa, quando ancora era viva la voglia di vedere il nuovo, senza essere stati stupiti in precedenza. Cameron con questo seguito elabora un'Odissea di tre ore immersa negli oceani di Pandora, mettendo ancora più dettaglio nella cultura Na'vi e lasciando intendere che la condivisione emozionale e spirituale del pianeta è ancora più grande di quanto potevamo immaginarci. Nonostante la presa di posizione del cinema digitale, il buon Jim si guarda indietro nella sua filmografia per tutto il tempo, davvero, mettendo più storia nella sceneggiatura, creando una serie di legami e conflitti, che non rimangono solo un mezzo tipicamente narrativo, per dare significato alla storia, a Pandora e ai singoli individui. Affetto, scontro ideologico, morale, melting point di razze e così via, questo viene elaborato con cura e dovizia da Cameron (e dagli altri sceneggiatori) per tutte le ore che abbiamo di nuovo sotto gli occhi questo mondo.
Nonostante dei passaggi (forse) forzati nella mano o da rivedere, il climax che si raggiunge al terzo atto è una summa del cinema fatto da James Cameron, riproponendo e rielaborando le immagini che ci aveva già fatto vedere tanto tempo fa: gli esoscheletri di Aliens, affondamenti degni di Titanic, le bioluminescenze di The Abyss, la natura ambigua/valorosa dei Marines americani, la potenza biologica di un pianeta. Tutto questo ci viene dato rimanendo sempre al passo con i tempi del cinema, che, come detto, è sempre in continua evoluzione. Prima del terzo atto possiamo però assistere ad un massiccio e sempre tendente al gigantesco "world-building", tanto reale da sembrare un documentario della National Geographic, un miracolo digitale che mette armonia all'essenza reale di essere viventi in carne e ossa misti alla tecnologia digitale visiva alla sua massima efficacia. Inutile stare qui a parlarvi poi della grande colonna sonora di Simon Franglen, della fotografia di Russell Carpenter e allo splendido cast che si aggiunge di nuovi interpreti portando con forza quelli vecchi senza mai sminuirne il valore. Il vero colpo di scena è che quando il film termina, non siamo più su Pandora, non siamo più immersi in quelle foreste e in quei mari, non siamo più a contatto con un altro mondo che trapassa lo schermo e colpisce lo spettatore, come quel treno che arrivò alla stazione di La Ciotat ad opera dei fratelli Lumière, tanti anni fa, che spaventò gli spettatori per la troppa realtà che stavano vivendo, facendoli scappare dalla sala.

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