12 Angry Men (1997) La parola ai giurati, formato William Friedkin

 


Quante volte un classico del cinema può essere rivisitato? E in particolare in quante di queste volte la qualità non va scemando con la ripetizione del soggetto? Di base, quando qualcosa non è rotto, non è da riparare ma in determinati casi si può aggiornare il soggetto cinematografico così da poterlo rimodellare con il periodo contemporaneo al rifacimento che si vuole fare. Carpenter e Cronenberg in questo sono stati grandi esempi di riproposizione di un classico ("The Thing" & "The Fly") e in questo pure William Friedkin può permettersi anche lui una parola in più visto che "12 Angry Men" ritorna nel riproporre un classico come aveva fatto con "Sorcerer".




Questa volta, come farà poi nell'ultima fase della sua carriera culminata prima della morte con "The Caine Mutiny Court-Martial" nel 2023, Friedkin prende il più classico dei generi americani il courtroom drama nella sua essenza più famosa ovvero quella che porta il nome di "12 Angry Men" ("La parola ai giurati" in italiano) di Sidney Lumet. Chiamando a sé l'originale sceneggiatore Reginald Rose, artefice del primo adattamento televisivo della sua opera di stampo teatrale, ne chiede il favore di ricontestualizzarne il contenuto negli anni 90 aggiungendoci la variabile che prima mancava (visto anche i fatti relativi al caso O.J. Simpson), ovvero un contesto sociale più ricco in cui il tema razziale abbia più presa sia nella motivazione che nelle dinamiche del ribaltamento del verdetto della giuria. Infatti il cast che si avvale di due mostri sacri in lotta recitativa tra loro, degli splendidi Jack Lemmon e George C. Scott, trova anche spazio per attori come: Courtney B. Vance, Ossie Davis e Mykelti Williamson che sono proprio lì per mettere in mostra quel lato americano sempre messo da parte come minoranza, in particolare quando si parla di contesti sociali. Senza scordarsi che abbiamo anche spazio per nuovi talenti come James Gandolfini, Tony Danz e William Petersen in cui si aggirano caratteristi d'annata come Dorian Harewood, Hume Cronyn, Edward James Olmos e Armin Mueller-Stahl. Ultima parola anche per la gradita presenz di Mary McDonnell come giudice di corte.




Il risultato di queste nuove variabili inserite da Friedkin all'interno del soggetto è una soluzione innovativa vincente, che gioca secondo le stesse regole del classico ma ne cambia i giocatori, le fondamenta del soggetto sono rispettate e le dinamiche narrative prendono naturalmente strada attraverso l'ausilio degli attori e del loro talento. In breve, la trama che è abbastanza conosciuta porta il ribaltamento nel giudizio di un caso d'omicidio in cui il presunto colpevole era già dato per spacciato, in cui una sola persona riesce attraverso la sua analisi ha cambiare le idee agli altri giurati a suo favore. L'apporto del nuovo contesto sociale mostra i risvolti di questi scontri verbali fino al giudizio finale di assoluzione, in cui il meglio e il peggio degli essere umani viene a galla nelle loro personali opinioni che vanno dal qualunquismo, passando per l'estremismo e infine la razionalità. La regia di Friedkin permette che due ore passano piene di tensione, in cui la telecamera non rimane fissa ma si muove tumultuosa nella stanza quasi riflettendo gli animi dei personaggi che la dimorano. Questa è un'altra lezione di grande cinema da parte di Friedkin, oltretutto mette anche in luce l'ambiente televisivo che fino a non tanti anni fa era sempre stato screditato come ultima spiaggia della settima arte, in questa piccola gemma che offre contemporaneamente aggiornamento e classicismo di una pietra miliare del cinema mondiale.

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