Le Pacte des loups (2001) Il patto dei lupi di Christophe Gans, la leggenda della Bestia del Gévaudan attraverso il cinema di genere

Era da un po' che non parlavo della mia adulata New Wave francese, un movimento cinematografico che ha rinfrescato il genere horror in Francia negli anni 2000, oltretutto sarebbe imperdonabile non citare Christophe Gans assieme ai vari Pascal Laugier, Julia Ducournau, Alexandre Aja e la coppia Alexandre Bustillo e Julien Maury.Gans è un cineasta intelligente con la bravura di muoversi tra i generi che più gli piacciono e con una vena non tanto prolifica (in quarant'anni di carriera solo cinque film) ma che gli ha permesso di mettere una certa qualità rispetto alla quantità. Inutile che se dovessi fare un altro paragone europeo con tale regista verrebbe alla mente il norvegese Tommy Wirkola, entrambi condividono la stessa matrice adulatoria degli elementi tipici dei classici B-movie che hanno fatto storia. Come vedrete (ho avete visto, leggerete) il punto forte di questa visione artistica è la commistione naturale tra vari generi, che sono comunque accomunati dalla stessa tipica intenzione della messa in scena. Il patto dei lupi è un bellissimo esemplare vario e ferale che con le sue zanne può afferrare la curiosità del visionatore sin dai primi minuti per poi immergerlo in una bellissima ambientazione.
La premessa di tutto è l'ispirazione del soggetto: tratto dal libro L’innocence des loups dello zoologo francese Michel Luis che rivisita la storia vera di una serie di aggressioni avvenute tra il 1764 e il 1767 nella Francia meridionale. Per chi volesse approfondirne la storia rimando ai tantissimi documenti e video che parlano della Bestia del Gévadaun, un fatto storico dannatamente interessante e fonte di grandi idee ancora oggi: Teen Wolf ne parla, Wolfman ne cita la storia, rappresentato in vari manga e così via. Il soggetto fu presentato da dall'esordiente Stéphane Cabel a Canal+ Écriture nel 1998 e si intitolava Lupu Dei. François Cognard di Canal Écriture propose poi la sceneggiatura, frutto di un ulteriore anno di lavoro, a Christophe Gans, che si trovava in un momento particolare, costretto ad abbandonare la lavorazione di un film a cui aveva dedicato quasi tre anni, le cui riprese erano state continuamente rinviate, e che accolse la possibilità di girare un film come Il patto dei lupi, in cui poter mettere tutto il proprio immaginario, come un vero e proprio regalo. Gans, non interessato a realizzare un film con star internazionali, che lo costringesse a dipendere da attori affermati, ha messo insieme un cast composito, formato da volti giovani, a rappresentare il nuovo cinema francese, e da veterani simbolo del cinema francese del passato. Il fatto che Gans, per sua stessa ammissione, non sia un "regista di attori" e sia invece più interessato alla perfetta riuscita tecnica che alle performance interpretative, ha creato qualche difficoltà agli attori, che non hanno trovato in lui un interlocutore con cui approfondire il loro lavoro, ma in compenso non ne sono neanche stati condizionati ed hanno avuto la massima libertà di esprimersi, e durante le riprese il suo atteggiamento verso di loro è comunque via via migliorato, offrendo maggiori possibilità di confronto.
La trama vien da sé: dopo un prologo ambientato durante la Rivoluzione francese che vede una Parigi in preda ai tumulti e alle decapitazioni di piazza, un nobile è intento a scrivere le sue memorie dove racconta di alcuni efferati e misteriosi omicidi avvenuti nel 1766 e che hanno terrorizzato la provincia francese di Gèuvadan per tre anni con la morte di oltre un centinaio di persone. Sembra che ad assalire i viandanti e gli abitanti dei villaggi sia una bestia, forse un gigantesco lupo che neanche il più esperto dei cacciatori è riuscito a catturare, l’animale colpisce e poi scompare misteriosamente senza lasciare alcuna traccia di sé, così strane storie di mostruosità dall’aspetto demoniaco cominciano a circolare tra gli abitanti della zona e il panico rischia di prendere il sopravvento sulla popolazione.
Il talentuoso regista francese Christophe Gans, che dopo avrebbe fatto una discreta trasposizione del videogame-horror Silent Hill (sfatando di per sé già una pecora nera) e arrivato dal suggestivo adattamento del manga Crying Freeman, elabora un fascinoso ibrido in celluloide: dalla evocativa ambientazione, senza scordarsi la tematica cara dell'uomo contro la bestia ferale, con un cast in parte e un’intrigante miscela di mistero e horror (in questo la fotografia di Dan Laustsen fa da padrona, scelto visto il lavoro fatto per Mimic di Guillermo del Toro), suggestioni fumettose (senza dubbio) che ritroviamo anche negli effetti speciali (il look della bestia per esempio) a cui dobbiamo aggiungere una gradevole dose di gore, che plasma il tutto, in una via di mezzo tra film in costume (l'epoca è quella dell'Ancien Régime, durante l'età dei lumi del XVII° secolo) e la fiaba dark (il classico lupus in fabula del folklore) con tanto di fase investigativa (il giallo all'italiana dei 60/70, Bava su tutti) ed elementi tipici di molti film a tematica complottista. Il cineasta per proprio gusto non rinuncia di certo ad inserire nei suoi lavori elementi da B-movie, categoria di cui è grande estimatore e che gli permette di trattare con efficacia il cinema di genere; infatti, è un appassionato del cinema di genere italiano, tra i suoi registi preferiti non stupirà che sono presenti Riccardo Freda e Mario Bava.


È indubbio che grazie alla provenienza europea mantiene un fascino molto particolare che lo differenzia considerevolmente dai consueti prodotti fantasy caciaroni degli americani. Nel cast troviamo: Monica Bellucci (sempre nel solito ruolo della sua carriera, la gnocca ambigua), Vincent Cassel (anche lui nel tipico ruolo di carriera, il figone ambiguo), Mark Dacascos già attivo con Gans nel cinemanga Crying Freeman, che qui ha totalmente variato il personaggio iniziale rispetto alla sceneggiatura (che era uno stregone simile a Yoda) e per Samuel Le Bihan che interpreta un solido protagonista. Il resto degli attori e attrici aiuta ancora di più grazie alla varietà d'interpreti sempre in parte. Invece la colonna sonora per mano del grande Joseph LoDuca è sempre parte integrante del girato e non sminuisce gli andamenti narrativi. Ultima menzione per la creatività dietro la famosa bestia del Gévaudan (ma anche il, che è stata ideata e costruita da Igor Chevalier e animata da Jamie Courtier. Rappresentata come un grande animale dotato di molta forza, con grandi fauci e al posto di denti e artigli delle lame d'acciaio, in cui poi la sua vera natura verrà spiegata alla fine del film.
Tirando le somme, io non posso che rimanere abbacinanto da cotanta inventiva del regista, capace di mettere a piene mani diversi stili, unendoli a puntino con un fatto storico molto oscuro e che esprime leggenda da tutti i resoconti (di cui vi invito ancora a informarvi). Ovvio che la pellicola si trascina dei difetti (anche propri di carattere), dovuti alla differenza degli elementi messi in campo e anche da determinate scelte che possono piacere o meno. Questo non toglie, comunque, la capacità della nuova ondata del genere horror in Francia dall'avere sempre avuto le carte in regola per fare cinema di genere con i contro. Il patto dei lupi è, nei suoi pregi e difetti, un manifesto: della capacità del genere fantasy in Europa di non essere fine a sé stesso rispetto agli americani, dell'eco delle leggende presenti nell'antica Europa che non finiranno mai d'ispirare il cinema e, in particolare, di come tanto tempo fa Mario Bava avesse ragione nel fare un certo tipo di cinema ritenendolo fondamentale per l'evoluzione della settima arte.

(oltretutto quello che attesta la implicità potenza qualitativa ed evocativa del film posssiamo tracciare anche l'ispirazione che ha infuso in altri media, lampante esempio è il videogioco elaborato dalla FromSoftware che porta il nome di Bloodborne, che a livello estetico ne è figlio diretto)

Commenti

  1. Un prodotto particolare, che nonostante i mille difetti mi era piaciuto. A mio avviso, più che per un film, c'era molto materiale per una miniserie, un format che penso avrebbe aiutato maggiormente anche la costruzione della suspance.

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    1. Ormai tutto può diventare serie, visto l'andazzo che si è preso il media, non trovi? Certo, certo...i difetti si notano subito, quella che noi chiamiamo tamarraggine di fondo. Però io rimango smepre innamorato quando si vuole richiamare un certa evocatività di genere.

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