Zwartboek (2006) Olandesi senza gloria, Black Book di Paul Verhoeven
Inutile dire che i fatti che stanno accadendo, in giro per il mondo, mi hanno riportato alla mente nella loro efferata ambiguità sociale/nazionale questo film. Vuoi per il contesto rappresentato, dove non tutto è sempre quello che sembra (tematica cara al regista, che da sempre e in tutti generi ha demolito le belle apparenze) e vuoi anche perché non parlare della filmografia di Verhoeven, da grande appassionato del cinema che si rispetti, sarebbe una mancanza imperdonabile. Questo in particolare, è Il primo film olandese (è il più costoso girato nei Paesi Bassi) di Verhoeven da quando si trasferì a Hollywood nella metà degli anni '80. Dopo anni in cui era stato considerato “bollito” dai più, il buon Paul ritorna in pompa magna e attua due cose di fondamentale importanza: la prima viene da sé, è lo sbattere in faccia al cinema europeo quanto la sua verve creativa/caustica/anticonvenzionale non è stata dissipata (o contratta) nel periodo di militanza alla corte di Hollywood e secondo, ancora più importante, come le sue idee siano ancora attuali e più che mai tangibili nel contesto storico e umano, facendo anche da relativo antesignano al successivo “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino, tutti e due grandi successi al botteghino/critica ma anche due modi di approcciarsi al contesto storico valutandone, nelle proprie derivazioni artistiche, le relative sfumature tramite la commistione dei generi.
La genesi è da ricercarsi nella collaborazione con Gerard Soeteman (“Turkish Delight”, “Soldato d’Orange”) in cui ad inizio 2000 riuscirono dopo tanto tempo nell’elaborare la sceneggiatura, scambiando il sesso del protagonista (da maschio a femmina) e basando il personaggio sulla vita di Esmée van Eeghen. L'ambientazione temporale è l’Hongerwinter (l'inverno della fame) del 1944/45 (Verhoeven aveva sei anni all'epoca) quando le ostilità si trascinarono dopo che il disastro di Arnhem non riuscì a liberare l'Olanda e nel porre fine alla guerra entro Natale. Emblematico (e ciclico narrativamente parlando) è l'incipit (quanto simbolico l’epilogo, che ricorda come la guerra rende tutti nazisti e solo i morti hanno pace da essa, parafrasando Cesare Pavese), che mostra un incontro tra due donne olandesi alla vigilia della guerra di Suez del 1956 in un kibbutz israeliano, da qui viene poi fatta un’analessi temporale che mostra il film, essendo che la protagonista ricorda il suo passato. Verhoeven, già da incipit ed epilogo (prima l’Olocausto, infine la Palestina, Verhoeven sempre provocatorio usando l’arte per far riflettere il suo pubblico), dimostra la sua dimestichezza stilistica, e questa pellicola di stile ne ha da vendere tra: pathos, passione, rabbia, violenza, sesso esplicito. Di sicuro non è una tradizionale opera funerea Hollywoodiana riguardante gli abomini dei nazisti nel secondo conflitto, ma non è nemmeno un semplice fumettone di riferimenti al cinema di genere, più che altro è un'operazione che riscatta la controversa ideologia censoria dell'opportunismo al servizio del proprio, terribile o inopinabile, ruolo sociale che talvolta è pure revisionista (vero Benigni?).
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